Auriea Harvey e Michaël Samyn
sono artisti che operano sotto il nome di Tale of Tales e che nell’inverno 2005
si sono fatti conoscere grazie al loro The Endless Forest, un titolo
multiplayer incentrato sulla comunicazione non verbale in cui i giocatori
impersonano i cervi di una foresta; l’unica forma di dialogo concessa risiede
nell’uso di richiami e del linguaggio del corpo (meccaniche che saranno
riprese, anni dopo, dal celebre Journey). Nell’autunno del 2006 la coppia si
trova ad Atene, ospite del Mediaterra Festival of Art and
Technology, dove presenta il Realtime Art Manifesto, una dichiarazione
d’intenti del medium videoludico che rimanda ai manifesti delle avanguardie del
Novecento:
Ignorate i critici e i fanboy.
Create per il vostro pubblico.
Abbracciate l’ambiguità in cui il
realtime medium eccelle.
Dove appropriato, lasciate aperta
l’interpretazione
ma mantenete l’utente concentrato
e coinvolto dai mondi che avete creato.
Al netto di prese di posizione
ideologiche e di una certa pretenziosità formale, il documento è un punto di
partenza importante per capire come e perché sia possibile giocare con
l’estetica, e, di conseguenza, il senso assunto oggi dai cosiddetti “art
games”. Dal RAM emerge infatti una concezione concreta del videogioco come vero
e proprio oggetto d’arte pensato per un pubblico specifico. Premesso che per
gli autori i videogiochi tradizionali non sono arte (possono contenerne, ma
nascono con finalità commerciali e la loro stessa natura antepone il
divertimento dei fruitori alla volontà espressiva dei creatori), chi vuole
essere un “autore” in senso classico deve per forza coltivare la propria
visione attraverso un nuovo modo di utilizzare il medium. Proprio da qui nasce
l’idea di “esperienza totale”, ossia la cura di ogni aspetto di un’opera allo
scopo di generare un’esperienza multisensoriale completa. Nella visione dei
Tale of Tales il rapporto tra l’ambientazione e l’avatar guidato dal giocatore
diventa perciò centrale:
L’avatar non è un contenitore
vuoto, ma permette all’utente di navigare
Non solo nello spazio virtuale
Ma anche nei contenuti narrativi.
L’invito è quello di pensare il
medium da architetti e non da registi, cioè di creare spazi che raccontino
senza però imporre la narrazione; i soggetti delle opere devono essere
molteplici e al contempo rifiutare ogni possibile deumanizzazione. È in questo
passaggio chiave che si rigettano le tradizionali forme d’interazione: “Non
fate giochi”, ci dicono, “ma usate le possibilità del medium per esprimervi
attraverso l’interattività. Concentratevi su ciò che l’utente fa più spesso
nella vostra opera. Si cammina molto? Allora rendete quel camminare
interessante”.
Un approccio creativo
indubbiamente poetico (e che hanno proposto con coerenza in opere come The
Graveyard, The Path e Fatale, fino al bellissimo e discusso Sunset, i cui
scarsi risultati di vendita hanno però portato al fallimento della società),
che però sembra mettersi di traverso rispetto alle definizioni classiche di
“gioco” fornite dagli studiosi, a partire dal pioniere Johan Huizinga fino alle
più recenti rielaborazioni come quella del contemporaneo Ian Bogost. Secondo quest’ultimo, in particolare, “quando giochiamo esploriamo lo spazio reso
possibile dalle regole, manipolando i sistemi simbolici forniti dal gioco. Le
regole non si limitano a creare l’esperienza di gioco, ma costruiscono anche il
significato dello stesso. […] Quando i videogiochi rappresentano delle cose, lo
fanno attraverso la proceduralità, costruendo degli argomenti derivati da
modelli basati su delle regole”.
Regole e modelli comportamentali?
Stiamo parlando dello stesso argomento? Come si può legare la retorica
procedurale di Bogost con la visione artistica dei Tale of Tales? È possibile?
Risposta breve: sì, è possibile perché non c’è alcuna contraddizione tra i due
approcci. Ci arriveremo.
Videogiocare proceduralmente
Per farlo partiamo, però, da una
domanda molto più concreta: cosa facciamo quando giochiamo a titoli come Abzû
(Giant Squid, 2016) o Dear Esther (The Chinese Room, 2012)? Se ci si limita
alle azioni tradizionalmente concesse nei videogiochi, la risposta può solo
essere “poco o nulla”, che difatti è la critica più comunemente mossa dai
videogiocatori ortodossi al genere dei walking simulator cui questi titoli
appartengono.
Già solo la definizione è
interessante, poiché rivela una fusione di pregiudizi tipici della categoria: a
detta loro, un “simulatore di camminata” è un titolo che offre una sfida nulla,
e che per giunta viene denigrato dall’associazione semantica con uno dei generi
più screditati degli ultimi anni, per l’appunto quello dei simulatori di
attività umane ben distanti da qualsiasi concetto di divertimento (basti pensare
a Farming Simulator o al meno famoso simulatore di autobus di linea OMSI).
Insomma, il disprezzo dietro a una simile definizione è chiaro, così come la
tautologia che esprime: “I walking simulator non sono videogiochi perché non
fanno le cose dei videogiochi”.
Al di là dell’ingenuità di una
simile affermazione (che, tra le altre cose, non tiene conto del fatto che non
è possibile definirli in altro modo), in mezzo al disprezzo è possibile
scorgere dei barlumi di verità. In effetti, i walking simulator sono titoli che
riducono al minimo indispensabile la presenza di regole. Per descrivere le
meccaniche che regolano Dear Esther basta una frase: si cammina leggendo dei
testi che si trovano esplorando. Analogamente, nel celebre The Stanley Parable
(Galactic Cafe, 2013) si vaga per uno spazio surreale sbloccando percorsi
narrativi a seconda del corridoio o della porta imboccati. Insomma: se, come
dice Bogost, è vero che sono le regole a determinare il senso di ciò che
facciamo in un videogioco, cosa ci dicono le regole di videogiochi in cui
apparentemente non si fa nulla? Come facciamo a far convivere il concetto di
retorica procedurale con quello di rifiuto del videogioco tradizionale espresso
dai Tale of Tales?
Banalmente, basta mettersi
d’accordo sulla natura delle regole nei videogiochi.
Prendiamo in considerazione la
semplicità estrema di Flappy Birds, il fenomeno mobile di qualche anno fa: nel
titolo dotGEARS un uccello va mantenuto in volo il più a lungo possibile,
toccando lo schermo a intervalli regolari secondo un ritmo che va modulato per
gestire l’altitudine, così da permettere al pennuto di passare nelle aperture
dei tubi che incontra lungo il percorso. Tuttavia, quelle appena descritte sono
solo le regole imposte esplicitamente al giocatore fin dall’inizio, a cui si
devono però aggiungere quelle imposte all’uccello (che risulta oltremodo
pesante, goffo e pressoché incontrollabile) e che si possono apprendere solo
con l’esperienza. Pertanto, il giocatore sviluppa l’abilità di gioco complessiva
seguendo non uno, ma due set di regole, che vengono esplicitati in tempi e modi
diversi. E per quanto sembrino decisioni minime, il loro corretto equilibrio
determina la qualità complessiva del gameplay: basti pensare ai numerosi cloni
di Flappy Birds che sono stati realizzati negli anni, la maggioranza dei quali
è risultata fallimentare nonostante l’apparente semplicità del soggetto da
copiare.
Passeggiare per mondi virtuali
Ciò detto, torniamo a Dear
Esther. Scopo del gioco è l’esplorazione di un’isola su cui è stato abbandonato
il giocatore, che si risveglia senza alcuna indicazione sulle ragioni per cui
si trova lì. Ci sarebbe molto da dire sui temi trattati dal gioco – su tutti
l’autoanalisi della propria follia – ma concentriamoci sull’esiguità delle
azioni concesse (camminare e leggere, appunto): bastano per convogliare il
messaggio degli sviluppatori, oppure c’è la necessità di fargli fare altro?
Sparare, magari? E a chi? Quali nemici potrebbero popolare un’isola
abbandonata? Quelli prodotti dalla sua mente? E allora mettiamoceli, e
spariamo, spariamo, spariamo: esauriti i caricatori, siamo sicuri che
l’esperienza ne abbia giovato? Proviamo allora a mettere qualcosa che sia più
in linea con l’attività investigativa richiesta dal titolo: un puzzle. Serriamo
una porta e nascondiamo la chiave. Anche in questo caso, però, qualcosa non
torna: se il personaggio è l’unico abitante dell’isola, chi ha chiuso la porta
e nascosto la chiave? Se è un esterno, come lo introduciamo nell’avventura? E
se invece è lo stesso protagonista, come giustifichiamo un simile
comportamento?
La verità è che qualsiasi
caratteristica provassimo ad aggiungere, Dear Esther non ne risulterebbe
arricchito, bensì impoverito. Anche solo allungandone artificialmente la durata
otterremmo un effetto contrario a quello desiderato, per il semplice motivo che
il gioco non è solo la storia che racconta, ma è soprattutto l’ambiente in cui
si svolge; un ambiente che funziona solo nell’esatta forma che hanno scelto gli
autori e per cui hanno sacrificato molte meccaniche di gioco. In tal senso, il
giocatore non è chiamato a risolverlo in senso classico, ma solo a leggerlo.
Quelle che in gergo vengono chiamate le scommesse interpretative – ossia le
risposte del giocatore alle sollecitazioni procedurali del sistema – vengono
deviate dalla risoluzione di possibili problemi e convogliate verso
l’osservazione dell’ambiente. Dear Esther ci invita in primo luogo a guardarci
intorno, legando ciò che vediamo alla lunaticità dei testi. L’azione che si compie
di più nel gioco è camminare e, coerentemente, camminare è stato reso il più
interessante possibile. Anzi, sul camminare e guardarsi intorno si è
concentrata l’intera volontà autoriale: il resto è stato marginalizzato o
eliminato. Le poche regole residue ci spingono all’esplorazione e diventano
parte del processo di comprensione del personaggio, risultando una marcia
forzata che non ammette distrazioni o ripensamenti.
Nel titolo sviluppato da The
Chinese Room il gameplay non produce piacere in senso classico, cioè offrendo
una sfida espressa da un sistema di regole che richiedono una crescente abilità
nell’uso dell’interfaccia, bensì attraverso un percorso estetico che ci invita
all’osservazione e alla riflessione, spingendoci oltre il limite della fruizione
meccanica. In altre parole, non importa tanto ciò che facciamo, quanto la
sequenza di eventi di cui siamo testimoni; sequenza di cui possiamo modulare la
velocità di fruizione, ma che presenta una sfida solo in quanto
rappresentazione estetica di un quadro di senso più grande.
Abissi
Abzû, titolo esplorativo in cui
si guida un uomo pesce alla ricerca della sua civiltà perduta, risponde alle
stesse logiche, ma in senso ancora più estetizzante. Di primo acchito, la
differenza tra l’opera di Giant Squid e Dear Esther sembra essere che laddove
quest’ultimo ci invita a sprofondare nell’animo umano, il primo punta al bello
fine a se stesso, costruendo un mondo in cui il senso è rarefatto e quasi
impalpabile. Quando siamo immersi nell’acqua compiamo innumerevoli azioni: ci
guardiamo intorno rapiti dai colori e dai pesci, nuotiamo verso quello che
riteniamo essere il nostro obiettivo, ma senza dimenticarci di osservare il
fondo oceanico per non perderci alcuna delle meraviglie che lo compongono.
Insomma, moduliamo la velocità di esplorazione, accelerando o frenando in base
al tempo che impieghiamo per ritenerci soddisfatti dello spettacolo che riempie
il monitor. Il processo di decodifica del gioco si arricchisce con il procedere
della narrazione, ossia con la comparsa di rovine e di quelli che capiamo
subito essere dei nemici, ma i dettagli della storia raccontata sono tutto
sommato secondari: ciò che importa è la forza visiva che l’aggiunta di elementi
significanti regalano all’esperienza estetica nel suo complesso. Le rovine non
contano solo come momento disvelante delle vicende che hanno condotto
all’esperienza che stiamo vivendo, ma anche come ulteriore pezzo di quella
composizione dinamica che si va formando di fronte e in noi. Abzû è un
moltiplicarsi di elementi (pesci, piante, colori) che nel loro insieme formano
un vortice astratto e sublime da cui si trae piacere semplicemente
contemplandolo.
In alcuni casi fa venire alla
mente un caleidoscopio, ma non inganniamoci, perché dividere la mera bellezza
grafica dalla presenza autoriale, che ha stabilito i ritmi generali lasciando
la gestione di quelli particolari nelle mani del fruitore, lo priverebbe di
gran parte del suo valore. In tal senso, il gioco funziona non solo per la
realizzazione dei suoi singoli elementi, ma soprattutto per come sono
mescolati. Nonostante ciò, per ottenere questo effetto l’interazione resta un
elemento fondamentale: la possibilità di muoversi e di guardarsi intorno è
infatti la liberazione dai limiti che lo schermo impone alla percezione del
mondo di gioco, e mettendo in campo ciò che un frame prima rimaneva fuori,
sveliamo un altro pezzo della composizione generale. Siamo noi a determinare il
processo di ampliamento della visione oltre il limite del quadro. Siamo noi che
giochiamo con l’estetica che ci viene proposta, esponendoci a essa, alla
ricerca di qualcosa che vada oltre la semplice soddisfazione per un’azione ben
eseguita. Il protagonista è un avatar leggero che ci conduce per mano ad
ammirare la bellezza dell’oceano. Aggiungendo altre meccaniche di gioco o
conferendogli un passato troppo definito, gli autori avrebbero rischiato di
appesantirlo, facendolo affogare.
La conclusione è abbastanza
scontata: affermare che in titoli come Abzû o Dear Esther non si faccia nulla,
come pretendono certi autoproclamatisi hardcore gamer, è falso; si tratta della
classica presa di posizione che nasce da una forma insidiosa di conformismo e
che affonda le proprie radici in una broda primordiale di truismi, ragionamenti
circolari e sentenze estremiste. Giocare e godere di titoli incentrati su una
visione estetica è possibile e, anzi, in certi casi auspicabile. Di questi
bisogna imparare a valutare attentamente caratteristiche poco considerate nel
mondo dei videogiochi come la struttura narrativa, la composizione delle varie
parti, il peso della visione dell’autore sul mondo di gioco e come questa
interagisce con le poche regole presenti e così via. Faticoso, più di capire una qualsiasi meccanica di gioco, ma inevitabile se si vogliono capire questi giochi e la loro influenza.
Articolo originariamente apparso su Prismo




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