giovedì 12 settembre 2013

The Graveyard

La poesia del trapasso
 Dopo aver finito The Graveyard mi sono alzato, sono andato in bagno, quindi in cucina e mi sono messo a preparare il caffè con la moka. Ho lasciato il PC acceso con il gioco ancora in funzione. Dopo qualche minuto ho versato il caffè in due tazzine e ne ho portata una a mio padre, quindi, con calma, ho bevuto il mio. Ho infine lavato le tazzine e sono tornato in camera. Niente. La signora è ancora morta.
È morta anche ora, mentre scrivo. Per farla rivivere bisogna riavviare il programma. Non c’è nessuna schermata dei titoli, nessun game over, niente di niente. Il monitor è diventato una foto in movimento, un tableau vivant con un solo personaggio immobile.
I videogiocatori non sono abituati ai cimiteri. Ovvero i videogiocatori che entrano nei cimiteri lo fanno per riesumare cadaveri o per massacrare non-morti. Al massimo possono cercarci qualche indizio per risolvere un enigma. Che si parli di un GDR, di un FPS o di uno strategico poco importa, nei cimiteri videoludici non c’è mai ne pace ne silenzio, ma solo lo spettacolo dell’orrore, la messa in scena dello scontro con le rappresentazioni simboliche della morte, individuata come il male assoluto.
I videogiochi hanno sempre messo in scena l’illusoria vittoria dell’eroe sulla morte, puntando ad esorcizzarla e regalando quell’illusione d’immortalità che è uno dei motori immobili che “spinge a giocare”.
Non c’è morte nei cimiteri finzionali a cui siamo abituati, ma solo la rimozione della fragile natura umana e dell’infinita debolezza dell’individuo in sé.

The Graveyard è profondamente diverso: si deve guidare una vecchietta attraverso un cimitero facendola camminare su un vialetto. Arrivati ad una panchina la signora si siede e muore. Il trapasso è accompagnato da un musica malinconica. La musica finisce ma non c’è fine alla morte. La vecchietta rimane seduta con la testa piegata in avanti. Si aspetta (avrò aspettato cinque minuti guardando lo schermo più altri venti con la storia del caffè) ma niente. Il mondo intorno a lei continua a vivere: la luce è alterata dalle nuvole che passano davanti al Sole, gli uccelli cinguettano e volano intorno alla panchina e il vento continua a sollevare le foglie.
Ho attraversato con lei gli ultimi attimi della sua vita. L’ho accompagnata quasi per mano zoppicando con il suo bastone fino alla panchina e l’ho vista morire. L’ho letteralmente guidata verso il trapasso. Ho pagato per farlo. Se non lo avessi fatto sarebbe ancora viva, viene da pensare. Non c’è ritorno, ma solo silenzio. Nessun nemico da combattere ma solo una fine da vedere. La fine di una vita, costruita come tale, che è tanto più vita proprio perché assolutamente ignota a chi la guarda.
The Graveyard è un racconto senza storia che costringe a negare tutti gli stilemi dei videogiochi per farsi apprezzare. Non ci sono punti di riferimento cui appigliarsi, se non la propria volontà di accettarlo e valutarlo come esperienza radicalmente diversa rispetto a quelle cui il mercato ci ha abituati. Poetico e sperimentale, trova la sua essenza in un bianco e nero raffinato (mai visto un bianco e nero così bello in un videogioco) e in un’esperienza di gioco portata alle estreme conseguenze, che riempie l’utente di una serie di sentimenti mai provati davanti ad una console o a un computer, tra i quali è contemplato anche il rifiuto completo.

Nota finale: la versione recensita è quella definitiva che costa 5$. Nella versione trial, liberamente scaricabile dal sito del gioco, l’anziana non muore ma si rialza e va riaccompagnata fuori dal cimitero.

Articolo già pubblicato su Ars Ludica, 2008

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