Sopra la Luna
Blueberry Garden è come un giardino giapponese. Avviato il gioco vediamo un rubinetto aperto. Come arrivare a chiuderlo? Creando una pila verticale di oggetti per spiccare il volo dalla sommità. Dopo aver chiuso il rubinetto bisogna volare sulla Luna ed entrare in una porta. Gioco finito. Gli oggetti da impilare non sono tutti immediatamente raggiungibili: alcuni sono sotto terra, altri nell’acqua, altri apparentemente troppo in alto. Per impilarli tutti bisogna mangiare i frutti delle diverse piante sparse per il giardino e imparare ad usare il potere che conferiscono. Un frutto fa volare più in alto, un altro a forma di stella crea una bolla che permette di respirare sott’acqua, un altro ancora altera la conformazione del terreno, e così via. E se ho bisogno di un frutto specifico ma non lo trovo nelle vicinanze? Semplice, bisogna prenderlo da una pianta lontana e portarlo nel luogo in cui è necessario, per poi mangiarlo o, in caso di necessità, piantarlo al suolo per far crescere degli alberi che daranno altri frutti identici. Come si fa a coltivare un albero? Niente di più facile: si getta il frutto in una zona fertile, si evita che venga mangiato da qualche animale di passaggio e lo si lascia maturare. Sparito il frutto, cresce l’albero. Ci sono nemici? No. Ci sono soltanto degli animali fastidiosi che mangiano i frutti e, se non si riesce a chiudere il rubinetto in tempo, l’acqua sommerge lo schermo.
Blueberry Garden di Erik Svedang è platform atipico, armonioso, senza elementi fuori posto. È un gioco bonsai, quasi un Haiku, senza livore e senza ormoni. Non c’è niente di più o di meno di quello che dovrebbe esserci. Un quadro perfetto con il pittore attento a non eccedere in barocchismi. Dura poco, ma si lascia rigiocare perché non pretende nulla. Ammalia ed emoziona perché è pieno d’amore per il medium e capace di stupire, nonostante possa sembrare che abbia poco da offrire. Surreale, minimale, quasi aristocratico nel suo essere oltre la sfera dell’ovvio, Blueberry Garden è un’esperienza videoludica perfetta che lascia poco spazio agli elementi extra-ludici e nutre la sua estetica soltanto di sé, incentrando il gameplay sulla capacità del giocatore di lasciarsi trasportare emotivamente senza doverlo masturbare con storielle da trenta denari. Visivamente sublime, nonostante l’apparente semplicità della grafica (ricordate sempre: ad aggiungere sono capaci tutti, mentre capire dove fermarsi e sottrarre è più difficile) Blueberry Garden s’inserisce con prepotenza nel novero dei prodotti indie che possono far crescere il medium videoludico ben oltre la sfera del divertimento adolescenziale o, quantomeno, che riescono a farsi notare per qualità che vanno oltre l’ossessione tecnologica.
Articolo già pubblicato su Ars Ludica, 2009
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